Lavash, il profumo e il fascino dell'antico pane armeno patrimonio dell'umanità. La storia e la preparazione
Avvolto nella sacralità e considerato simbolo di fertilità, si serve soprattutto con formaggio, spezie ed essenze di montagna, con carne e verdure
Un cibo quotidiano, avvolto di sacralità in quanto connesso alla fertilità e al buon auspicio oltre che legante di relazioni familiari e comunitarie. È consumato principalmente in Armenia e si chiama lavash uno dei pani da pasta non lievitata tra i più antichi del Caucaso.
In Armenia resta un pane unico e identitario tanto che, dieci anni fa, l’Unesco lo ha inserito tra i beni culturali immateriali patrimonio dell’Umanità in quanto espressione culturale del Paese. Viene generalmente servito arrotolato attorno a una base di formaggio, per esempio un motal ossia un ovino o caprino sotto sale, successivamente sbriciolato e mescolato con essenze di montagna come il dragoncello fresco. Sul pane si possono aggiungere erbe come il coriandolo - che conferisce una nota piacevolmente piccante -, il dragoncello, il basilico rosso e la cipolla o carni locali. Per esempio è la base su cui poggiare il khorovadz lo spiedino di maiale, accompagnato da verdure.
Un impasto antico e un forno in argilla
È un pane azzimo cotto in pochi secondi nel tonir, tradizionale forno verticale in argilla rivestito in pietra e quasi completamente interrato. Il risultato dell’impasto da farina di grano, acqua e sale è una sfoglia ovale elastica appena sfornata e che poi si indurisce. I fogli vengono posti uno sull’altro in pile anche molto alte. Può essere conservato fino a sei mesi ed è sufficiente usare per un breve lasso di tempo un panno umido per farlo rinvenire.
La preparazione
Si tratta di un lavoro, centrale nella vita domestica, che inizia sempre con una benedizione. Stendendo il pane e spruzzando l’acqua viene spesso fatto un segno della croce sull’impasto. D’altronde l’Armenia è la prima nazione cristiana al mondo e il pane è nutrimento primordiale.
Una volta accese le braci, il forno viene scaldato per circa quaranta minuti e ripulito nelle sue pareti. Le donne si legano i capelli in un fazzoletto e, con grande abilità, proseguono una tradizione appresa dalle loro madri. Preparano quindi l’impasto, lo riducono in palline e le lasciano riposare una mezzora.
L’impasto, aperto e steso sottile con l’aiuto di un mattarello, viene passato di mano. Le sfoglie saranno fatte volteggiare in aria e poi allungate senza creare aperture interne su un apposito cuscino ovale, necessario per una perfetta aderenza al muro del forno. Il tempo di cottura è piuttosto rapido, solo pochi secondi. Quindi il pane viene staccato e posizionato su un telo. A prima vista potrebbe sembrare un ottimo carasau ma è differente la consistenza dei dischi del tipico pane di Sardegna, che subisce una seconda cottura dopo la separazione delle due sfoglie e, anche se bagnato, non riacquista la flessibilità del lavash.
Appena uscito dal tonir (utilizzato anche per cuocere le carni negli spiedi), il profumo del lavash si sparge e inizia una gestualità che si tramanda dalla notte dei tempi: si taglia con le mani, si mette su un piatto e si condisce per poi essere mangiato senza posate. Tutti insieme, attorno al tavolo comune