Mangiare tipico: denominazione di origine controllata o inventata? Facciamo chiarezza
Cosa è veramente italiano, la materia prima o le modalità di lavorazione? Viaggio nella confusione fra marchi e "patentini", alla larga dal rifiuto della modernità
Chi di voi ha preparato - durante questo autunno - una bella minestra di lenticchie? Io sì. E mi è capitato di essere realmente in ambasce al momento dell’acquisto. Ero in un Super enorme, con un’intera area dedicata ai prodotti così detti tipici: c’erano la lenticchia verde di Altamura, la lenticchia policroma di Castelluccio di Norcia - entrambe con il loro prezioso marchio I.G.P. - e quella di Colfiorito, piccola e tenera, che decido di prendere per il buon rapporto qualità prezzo. Mentre, in fila alla cassa, smanetto sullo smartphone, alla ricerca di una ricetta diversa dal solito, mi appare una lettera pubblicata su il Salvagente di qualche tempo fa, dal titolo sarcastico: “Lenticchie (di) Colfiorito? No, vengono dal Canada, ma beato chi lo capisce”. L’articolo è corredato dalla foto del marchio che documenta la provenienza della materia prima dal Paese delle giubbe rosse.
Cominciamo a fare chiarezza
Ora, le nostre lenticchie di Colfiorito sono incluse nella lista dei Prodotti Agroalimentari tradizionali dell’Umbria che il Mipaaf aggiorna e revisiona annualmente. E un prodotto è da considerarsi tradizionale quando “le conoscenze per la produzione della materia prima, la sua trasformazione e la sua conservazione sono state tramandate, nel tempo, all’interno di territori più o meno estesi”. E la materia prima? Quella può ben essere extracomunitaria purché sia lavorata secondo il “disciplinare” del territorio in questione. E sarebbe cambiato qualcosa se avessi preso, per esempio, le lenticchie di Altamura che è tra i prodotti con Indicazione geografica protetta? No! Perché il marchio di origine viene attribuito dall'Unione Europea quando, almeno una fase del processo produttivo deve avvenire in una particolare area ma che - a differenza della denominazione di origine protetta (DOP) - tutela le ricette e alcuni processi produttivi caratterizzanti tipici del luogo ma non per forza l'origine del prodotto nel suo intero complesso, se non quello della produzione finale.
Ecco che, mettendo da parte per un po’, il nostro piatto di lenticchie, qui, vale la pena scandagliare il sentimento di vera soddisfazione che proviamo tutti nell’acquistare tutto ciò che è tradizionale e che, per definizione, ci appare come buono e sano. E' la “trappola della tipicità” di cui, Alberto Grandi, che insegna Storia delle imprese e Storia dell'integrazione europea all'Università di Parma, ha parlato nel suo Denominazione di Origine Inventata. Le bugie del marketing sui prodotti tipici italiani.
“Per ottenere un qualche vantaggio sui mercati oggi”, dice Grandi in questa intervista, “si rinuncia a competere sul piano dell’innovazione e della ricerca. Il sovranismo è un argomento elettorale, che mira a sfruttare politicamente proprio quel lavoro di marketing messo in campo dal nostro settore agroalimentare […]. Ma in realtà non c’è alcuna analisi economica e alcuna visione del futuro per l’Italia”. D’altra parte, prosegue Grandi, “basta poco per smontare il mito sovranista e l’idea, davvero surreale, di un Paese che può vivere grazie alla Caciotta di Pienza o al Salame di Felino”. Che ci sia un problema che investe il proliferare di prodotti tipi e di nicchia, è lo stesso Mipaaf a riconoscerlo. Come riporta il saggio Geografia dei prodotti tipici locali e tradizionali di Graziella Picchi, pubblicato sull’Enciclopedia Treccani: “I prodotti di nicchia, di produzioni limitate in termini quantitativi e relativi ad aree territoriali molto ristrette, tali da non giustificare una DOP o una IGP, incontrano molte riserve in sede di Unione europea. Che, in linea di massima sarebbe contraria a queste produzioni”, vietando “la registrazione di marchi collettivi che contengano un nome geografico”. Il timore è infatti che si confondano con i prodotti DOP e IGP.
Cosa dice la legge italiana
Le nostre regole prevedono che la caratteristica di tipicità possa essere attribuita solo a prodotti che hanno almeno 25 anni di vita. Ma questo “particolare” purtroppo, passa in secondo piano: a causa dell’abuso mediatico e del proliferare delle iniziative di valorizzazione dei prodotti, il termine “tipico” è ormai diventato uno schermo dietro il quale si può vendere un po’ di tutto. Alberto Grandi, nel suo testo, parla di una vera e propria “distorsione del sistema delle denominazioni, che pretende di cristallizzare, anzi fossilizzare, un prodotto, che invece, per sua natura, sfugge a ogni tentativo di codificazione”. Ciò non toglie, però, che il sistema delle denominazioni sia “riuscito a creare valore e abbia determinato un innalzamento della qualità media di un prodotto, introducendo anche delle innovazioni”.
L’autore parla nel suo libro, per esempio, dell’aceto balsamico IGP (prodotto completamente inventato negli anni ’80)” o dello stesso “Parmigiano Reggiano, che ha conosciuto un’evoluzione straordinaria nel giro di quarant’anni”. Ma accanto a questa constatazione - per molti altri casi - vale il fatto che “le denominazioni hanno solo creato illusioni” : come, per esempio, il risvolto psicologico determinato dalla relativa comunicazione che si è concentrata su un messaggio, se è possibile ancora più pericoloso, quello che fa corrispondere la modernità e le innovazioni a qualcosa di negativo. Forse il giudizio e il lavoro di Grandi vanno meglio contestualizzati: perché, se è vero, che parte dello storytelling sul cibo risulta assai fantasiosa - “in Italia ci siamo inventati un passato meraviglioso che non corrisponde affatto alla realtà - è anche vero che oggi la comunicazione del cibo si avvale di strutture di grande impatto sull’opinione pubblica, in grado di stimolare comportamenti diversi e creare nuove imprese per la produzione di cibi eccellenti.
Il buon lavoro dei "marchi di qualità"
Slow food, Eataly, Terra Madre, gli altri movimenti culturali attivi, gli imprenditori, gli opinion leader e le numerose iniziative sparse sul territorio, come Herbaria (presso Macerata), Fritto misto (ad Ascoli Piceno), Pane Nostrum (presso Ancona), tutti contribuiscono allo sviluppo della consapevolezza, dell’educazione alimentare dei più giovani e dell’economia locale. Purché tutto questo non finisca con l’alimentare quel sentimento anti-moderno e nostalgico che presta il fianco - anche in ambito agroalimentare - al mito di nuovi sovranismi.
E' vero che non si esporta solo un vino o un prodotto agroalimentare e che l’identità di un Paese è una cosa complessa - tocca gli aspetti della sua cultura, della storia, del paesaggio, dell’arte, dell’antropologia - ma alla fine per competere sui mercati internazionali, serve investire sulla sua cultura scientifica, l’unica in grado di rafforzare la capacità di innovare e, a partire da questa, di avere una visione per mettere a sistema tutto.
E ora, provate le lenticchie preparate alla spagnola, non ve ne pentirete.
Ilaria Donatio ha fondato GnamGlam, progetto sull'agroalimentare italiano, e collaborato per anni con Greenews.info e Tuttogreen-La Stampa.it su ambiente e sostenibilità. E' stata responsabile di redazione a Formiche, occupandosi principalmente di green economy e cambiamento climatico. E' anche tutrice volontaria di minori stranieri non accompagnati e da sempre si occupa di diritti e immigrazione.