Missione "Caricagiola": così il vignaiolo Meloni salva i vitigni rari dall'estinzione. E nasce un vino unico
Le rarità, che sono la base della biodiversità, andrebbero a sparire senza la testardaggine e la passione di personaggi come lui. L'intervista
“Cosa è per me il Caricagiola? Un ritorno alle origini di quello che era una volta la vendemmia in Sardegna”. Pier Franco Meloni, cinquantenne alla terza generazione di viticultori, ricorda le sue corse in vigna da bambino e la biodiversità che finiva nel bicchiere. Allora gli appezzamenti più piccoli conservavano vitigni autoctoni ormai quasi scomparsi perché sostituiti da altre varietà. Oggi è uno dei pochissimi vignaioli a coltivare e vinificare in purezza il raro vitigno a bacca nera, appunto il Caricagiola, un tempo più presente nell’isola e in particolare nel territorio gallurese.
Vive e lavora a Monti, comune sardo ai piedi della catena del Limbara votato da secoli alla coltivazione della vite e celebre per il vermentino. Oltre alla passione per la musica e il disegno ha tenuto sempre viva quella per i vitigni locali, abituato a dare una mano in vendemmia sin da piccolo. “Siamo gente che si dà da fare”, sintetizza lui. Le uve di proprietà venivano conferite alla cantina sociale del paese, annata dopo annata.
Ma nel 2013 decide di dare vita alla Cantina Perandria e, con il supporto dell’enologo Nicola Degosciu, inizia a vinificare direttamente i propri vitigni autoctoni. La prima bottiglia è il Vermentino di Gallura Docg Superiore, che chiama Printzipale. “Come la figura del possidente ottocentesco che cercava di dare valore a quello che faceva con la sua terra. Avevo scelto quel nome perché era la prima cosa, la principale e più importante in quel momento in cui volevamo capire se fossimo in grado di fare il vino”, spiega a Tiscali FoodCulture.
L’anno dopo prende consistenza il sogno di un cento per cento Caricagiola e nasce Gherradores (cioè lottatori) che, come la prima bottiglia, veste un’etichetta disegnata dallo stesso vignaiolo. La produzione di Perandria si basa su otto ettari di Vermentino e quasi tre di Caricagiola. Poi precisa: “Ho anche una parte a Cannonau e anche un po’ di Muristeddu e altre varietà. Oltre vent’anni fa, infatti, ho iniziato a curare un vigneto sperimentale per vitigni antichi quali, per esempio, il bianco Retagliadu. Questo sarebbe adatto come aperitivo o spumante ma ci vuole tempo”.
Tempo e fatica, ripagati
Il tempo: dietro le bottiglie di Caricagiola c’è un lungo lavoro di recupero e di salvaguardia dall’estinzione. Com’è andata?
“Non è facile da trovare: a Monti parliamo di ceppi e non di intere vigne. Però ho sempre frequentato le persone anziane e ho imparato a conoscere le varietà. Con il Caricagiola non posso fare grandi numeri ma ho la soddisfazione di avere un prodotto di nicchia e il gusto di scoprire qualcosa di nuovo. Prima non si faceva quasi mai in purezza perché non rendeva, probabilmente per un trattamento non corretto in cantina. Quando ho iniziato ero l’unico a vinificarlo da solo”.
Come si esprime qui il Caricagiola in purezza?
“È di un rosso acceso, lucente. Quando lo bevi presenta freschezza, sembra ancora appena vendemmiato anche se lo mettiamo in commercio dopo due anni. Si avvertono frutti di bosco marcati dopo un anno e mezzo di cisterna e almeno un paio di mesi in bottiglia”.
Siete stati di ispirazione e oggi ci sono anche altre cantine più grosse a vinificare Caricagiola in purezza, anche se restate in pochissimi.
“Sì, però seguo una mia passione per i vitigni autoctoni e non mi occupo di quello che fanno gli altri con ben altra forza economica e che hanno comunque prodotti di qualità”.
Che tipo di viticultore è Pier Franco Meloni?
“Per me ci sono due tipi di vignaioli: gli appassionati e quelli che si buttano sul business. Io farei tutto ciò che sta nelle mie passioni con la massima serietà. Nelle vigne ci sono cresciuto e sto cercando di chiudere il cerchio. L’idea sta ancora viaggiando: mi piace svilupparne una e poi altre ancora. Devo provare sempre qualcosa di nuovo”.
L’impegno non manca perché la giornata inizia in panificio e continua in vigna. Quanto si lavora?
“Nel periodo estivo anche 19 ore. Devo dire grazie a mia moglie Francesca: la sua presenza e collaborazione è fondamentale. Molte cose le puoi realizzare perché hai una tua metà che ti supporta e ti dice inoltre quando sbagli”.
Con i vitigni autoctoni si può perfezionare un enoturismo ancora più di nicchia?
“In Sardegna abbiamo qualità ma dobbiamo imparare a fare molte cose. Nella seconda metà degli anni ‘90, da assessore comunale, andavo in giro per rappresentare il l’Amministrazione che aveva appena aderito a Città del vino, l’associazione nazionale che nella nostra regione includeva allora solo noi e Jerzu. In quelle realtà enologiche ho constatato che le mie idee erano cose già esistenti anche se non le avevo mai viste perché noi eravamo indietro e le visioni altrui erano inconcepibili nell’isola. Abbiamo colmato il gap solo in parte”.
Con quale filosofia nel 2020 avete iniziato a fare ospitalità in cantina con il b&b?
“La visita in cantina non è la prima cosa: per me il laboratorio vero e proprio è la vigna. Abbiamo iniziato a fare abbinamenti con i cibi per un’esperienza diretta con il territorio. Francesca è profonda conoscitrice di vecchie ricette e ha fantasia. Abbiamo avuto la consapevolezza di aver preso la strada giusta, incontrando persone che avevano le nostre stesse passioni. Chi viene si sente a casa e quando trovi chi ha il tuo stesso sentimento è fatta, hai le soddisfazioni. I nostri riscontri sono basati solo sul passaparola, lento ma più stabile”.
Ultimamente avete presentato nuove referenze, quali?
“Lo scorso anno, da una vigna di mezzo ettaro di Cannonau, ho imbottigliato Amsicora. Fa tutto la terra e qui lo ammorbidisce e consegna un colore più vivo. L’ultimo nato è Mapperò, un Nieddu addosu in purezza, un vitigno che qui stava nelle vigne piccole e mescolato agli altri diventava aceto. Però in acciaio e in ambienti puliti che ti dà altro. Mi piace molto il colore e i sentori. Mi fa venire voglia di mangiare pernici e cacciagione. L’ho chiamato così dall’intercalare usato da mio figlio piccolo”.
Quali idee per il domani?
“Sarebbe bello vedere realizzata l’accoglienza in un nostro stazzo di famiglia dotato di forno in pietra e pozzo di acqua limpida, maiali e asinelli per chi vuole soggiornare nella natura, fare un’esperienza a tutto tondo e godere della vista mozzafiato”.
E altri sogni sul vino?
“In futuro vorrei fare un rosato di Caricagiola. Produrre il vino non è solo metterlo in bottiglia: è molto di più. E le idee si possono conservare, non si rovinano e può realizzarle chi viene dopo di te. Magari tuo figlio”.