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Nato dalla pietra e a riposo nel talco, quel tesoro che diventa ancora più prezioso dentro la miniera

Nelle viscere della terra si può cercare e forse trovare di tutto, ma mai ci si aspetterebbe qualcosa di sorprendente come "L'Autin". Un viaggio liquido. Il reportage

Tiziano Gaiadi Tiziano Gaia   
Cosa si trova alla fine del percorso che porta a 'Paola' (Foto di Paolo Cilli, per gentile concessione dell'azienda L'Autin)

Il nostro viaggio al centro della terra inizia dalla miniera Paola di Prali. Casco in testa, saliamo su un trenino, un convoglio di vagoncini a due posti trainati da una piccola motrice, e ci addentriamo nelle viscere della montagna. La temperatura cala in fretta, così come l’oscurità. Alle nostre spalle e sopra le nostre teste, ci lasciamo i prati e i boschi della Val Germanasca, una diramazione della più ampia Val Chisone, la valle di Sestriere, nota tra gli amanti degli sport invernali. La discesa si preannuncia lunga, fredda e umida. Le pile, montate sui caschi, disegnano deboli cerchi bianchi sulle pareti del cunicolo, aperto a forza di esplosivo e poi eroso con pazienza dal piccone del minatore. In passato, il tesoro di queste gallerie era il talco, varietà Bianco delle Alpi, la più pregiata al mondo, purissima e incontaminata. Siamo cresciuti tutti in una nuvola profumata di borotalco, che generazioni di mamme e nonne hanno spruzzato sulla nostra pelle dalla mitica confezione in latta verde. Ebbene, a Henry Roberts, l’inventore, l’idea di creare il nuovo prodotto venne dopo che gli fu fatto conoscere il talco delle valli piemontesi. Ma oggi noi siamo alla ricerca di altro, decisamente.

Nelle viscere della terra c'è qualcosa di prezioso

Il nostro anfitrione si chiama Mauro Camusso, e con l’attività estrattiva ha una certa dimestichezza. A Bagnolo Piemonte, poco più a sud rispetto a dove ci troviamo, ha sede la ditta di famiglia, specializzata nell’estrazione e lavorazione della pietra di Luserna, un particolare tipo di gneiss, utilizzato fin dal XVII secolo come materiale da costruzione. Le case tradizionali delle valli Po e Pellice, cuore dell’industria estrattiva, sono realizzate interamente in pietra di Luserna, tetto compreso (le tegole in pietra sono dette “lose”). La pietra non ha preso il nome dal principale centro di estrazione, Bagnolo, bensì dal comune in passato meglio attrezzato per lo stoccaggio e la spedizione, via ferrovia, del materiale, Luserna San Giovanni. Luserna, con la confinante Torre Pellice, è anche l’epicentro della comunità e della cultura valdese… ma qui mi fermo, per non confondere le idee. Perché, seppure a bordo di un trenino all’interno della miniera, non stiamo cercando il minerale, ma un vino. Puntiamo a pepite preziose, non per la pelle, bensì per le papille. Cosa mai potrà c’entrare la viticoltura con questo ambiente di talchi finissimi e rocce affioranti? Qualcosa c’entra.

Le valli chiuse ancora tutte da esplorare

Tutti i comuni citati rientrano nella Doc Pinerolese, istituita nel 1996 con il nobile intento di salvaguardare un’area di produzione tanto storica e vocata, quanto misconosciuta e, a un certo punto, sull’orlo dell’estinzione. Il nostro sguardo sul Piemonte enologico tende allo strabismo, si sa. Tutti gli occhi sono puntati, invariabilmente, sui mari verdi del sud, il triangolo Langhe-Roero-Monferrato. Ma il Piemonte del vino ha molto altro da dire, e lo dice in queste valli chiuse e scoscese, lo dice ai piedi delle montagne e ai bordi delle città, sì, anche della città metropolitana di Torino. Alcune delle storie più affascinanti e delle perle più lucenti della corona vitivinicola piemontese riguardano zone che non immaginiamo neanche. Il Pinerolese è una di queste. Il comune eponimo, una cittadina operosa posta in fondo alla pianura, a quaranta chilometri da Torino, non vanta una particolare tradizione in fatto di vino, ma basta spostarsi di pochi chilometri e intravedere un versante o un colle, e la musica cambia.

Un po' di storia prima di arrivare alla destinazione finale

Durante l’Ottocento, il territorio, dominato dalla mole del Monviso, era un solo grande mosaico di vigneti, 25.000 ettari, a dar retta alle cronache del tempo, magari da prendere un po’ con le pinze. Straordinario, il panorama varietale, con nomi che sembrano usciti da un archivio medievale: avanà, plassa, avarengo, bequet, chatus, doux d’Henry, quest’ultimo così chiamato, pare, in onore del re di Francia, Enrico IV, rimasto folgorato dal casuale assaggio di un originale “falso-rosato” e “falso-amabile”, un vino, insomma, indecifrabile e buonissimo. All’esposizione ampelografica di Pinerolo, del 1881, troviamo in mostra 600 varietà d’uva, di cui 333 autoctone della provincia di Torino, un record, credo, di ogni tempo e ogni luogo! La decadenza è brutale e irrimediabile. La fillossera, serpente biforcuto, si insinua nelle vigne e le brucia, l’industria, sirena incantatrice, attira braccia e cervelli nella grande città, e tutto cambia e si dimentica, al punto da farci domandare, oggi, davanti a queste montagne brulle: possibile che un tempo fosse diverso? La rinascita dev’essere scaturita da una simile curiosità, e dal desiderio di ritrovare i 25.000 ettari del paradiso perduto. Piccoli produttori, spesso giovani, hanno ripreso la vigna e la cantina. Si è costituito un consorzio di tutela, presieduto da Luca Trombotto (uno di quei giovani). Ogni anno va in scena un importante evento promozionale, Pinereulvin, organizzato dalla locale condotta Slow Food. È attivo un istituto teorico-pratico, la scuola Malva-Arnaldi, che, tra i vari compiti, sta raccogliendo il patrimonio varietale (si è arrivati a 120 vitigni, ancora lontani dal primato del 1881, ma chissà…). E il panorama viticolo, a poco a poco, è rifiorito, con esiti paesaggistici a volte stupefacenti. Ne è un simbolo la grande scalinata terrazzata di Pomaretto, con i vigneti pensili, da cui si ottiene il raro vino Ramìe, che fanno da volta al villaggio ubicato all’imbocco della Val Germanasca.

Ultima tappa

E rieccoci in miniera, sul nostro trenino lanciato verso la pancia del mondo. Perché capita di imbattersi in personaggi come Mauro Camusso, che il vino non lo avevano mai prodotto, ma se lo ricordavano dai tempi dell’infanzia (un po’ come il profumo del borotalco) e in fondo lo avevano sempre coltivato, almeno col pensiero. Questa, si sarà capito, è una storia di ricordi, che prima o poi si avverano, e Camusso il vino si è messo a farlo per davvero. Nel 2010 ha avviato l’azienda L’Autin (in dialetto, “piccolo appezzamento di terra”), con vigneti a Campiglione-Fenile e Bibiana, in provincia di Torino, e cantina a Barge, in provincia di Cuneo, comunque all’interno della Doc Pinerolese. La filosofia produttiva è stata chiara fin dall’inizio: da un lato, puntare sui vitigni autoctoni, dato che non mancavano, dall’altro, non precludersi di sperimentare, a costo di tenere, rispetto alla denominazione, un piede dentro e uno fuori. Il disciplinare, ad esempio, non ammette uve a bacca bianca o internazionali, il pezzo forte, ironia della sorte, della gamma targata L’Autin. E di certo non contempla le bollicine, il piatto forte della giornata di oggi. Sì, è questo l’arcano, che si cela dietro il nostro viaggio nel cuore di tenebra della montagna. Paola, la miniera, custodisce le bottiglie dello spumante Metodo Classico Eli, dove “Eli” sta per Elisa Camusso, la giovane figlia di Mauro, il quale deve aver pensato che, per unire il vino e la pietra, la propria doppia anima, non ci fosse modo migliore che affinare il primo dentro la seconda. E così ha fatto, dopo aver convinto le autorità che gestiscono l’Ecomuseo delle Miniere e della Val Germanasca. Le prime bottiglie dell’Eli sono state portate in miniera poco dopo l’avvio dell’avventura aziendale. Oggi, le cantine sotterranee sono ben due e ospitano oltre 12.000 bottiglie. Le bollicine, nel frattempo, sono diventate tre: l’Eli Brut (50% chardonnay, 40% pinot nero e un saldo di autoctoni), l’Eli Pas Dosé e l’Eli Brut Rosé (100% pinot nero).

Nelle nostre mani e nel nostro palato

Finalmente le vediamo. File e file di bottiglie a riposo in un ambiente “total black”, immutabile nella temperatura, 10°C, e nell’umidità, eterno nel silenzio e nella solitudine. Un assaggio di quell’eternità è lo scopo ultimo della nostra discesa agli inferi. No, non pensiamo (ancora) di essere anime dantesche. Ma incontriamo una bottiglia che sta sfidando il suo stesso destino. La “numero uno”, direbbe zio Paperone. La prima serie di bollicine, in tiratura limitata, deposte 84 mesi fa nella miniera Paola e qui, di fatto, dimenticate sino ad oggi. Elisa e Mauro Camusso ci hanno condotti per mano sui primi passi della loro grande scommessa, ed ora che il vino sembra pronto, ora che stanno per farcelo scoprire e degustare, è come se l’intera montagna, intorno a noi, si spalancasse e lasciasse entrare la luce del giorno, mentre il tappo vola via, e ogni attimo è già un ricordo da inseguire, ancora una volta.

Metodo Classico Pas Dosé Eli 84 Mesi

Giallo paglierino con riflessi verdi, spuma cremosa e sciabordante, perlage fine e persistente. Naso ricco e sfaccettato, con sentori di crosta di pane e pasticceria secca, su un tappeto aromatico floreale e fruttato. Sorso profondo, appagante e pieno, scolpito nel timbro secco e sapido, ben bilanciato tra acidità e morbidezza, rotondità e mineralità graffiante. Chiusura su richiami di grafite e pietra, remota memoria del talco che lo ha custodito, e che porta simbolicamente al collo della bottiglia come un amuleto, in vista del lungo viaggio.

Tiziano Gaiadi Tiziano Gaia   
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