"Cin Cin" è cinese, brindisi viene dallo spagnolo: segreti, curiosità ed eccellenze dello spumante
Fenomenologia delle bollicine. Ecco le cose che non sappiamo, quelle che sappiamo male, e le segnalazioni di alcune delle migliori marche da versare nel nostro calice
Non ci resta che brindare. Lungi dal voler essere una provocazione, o un incitamento di cattivo gusto a travisare il senso di questo viaggio al termine della notte che è stato il 2020, è un invito a riflettere sul significato di uno di quei gesti entrati nelle nostre vite, di cui spesso non ricordiamo più l’origine. Intuiamo che dietro un calice alzato si cela un simbolo antico, ma le circostanze, il più delle volte, ci portano a viverlo come un atto meccanico, spogliato di qualsiasi sacralità. Invece, è proprio nella sfera del sacro che il brindisi trova la sua radice profonda. Conosciamo il pioniere delle libagioni: è Noè. Appena scampato al diluvio e sceso dall’arca, alzò gli occhi al cielo, finalmente sgombro di nubi, e offrì un sacrificio a Dio. Poi piantò una vigna, e sappiamo come andò a finire. Fu sorpreso dai figli a dormire nudo dopo aver bevuto un po’ troppo. I siparietti di Noè rischiano di far passare in secondo piano il collegamento tra il rendimento di grazie e il frutto della vite. Da quel momento in poi, nella tradizione biblica non c’è sacrificio che non preveda uno spargimento di vino intorno all’altare.
Su i calici: è sempre un rito
Anche in ambito pagano la divinità viene sempre ingraziata con un innalzamento di calici. Prende piede la consuetudine di bere “alla salute” degli dèi, dei vivi o dei morti. Il brindisi abbatte la barriera che sta tra i due mondi, connette un al di qua a un aldilà, mettendo in comunicazione l’uomo con il divino. Anche in epoca classica, non è mai un piacere fine a sé stesso. Nel Simposio di Platone, a furia di brindisi si ubriacano le più brillanti menti del tempo, Socrate e Alcibiade, eppure quel banchetto ci ha consegnato la più elevata riflessione sull’amore giunta fino ai giorni nostri. E nelle Baccanti di Euripide, tocca a Dioniso, che di ogni libagione è re, piegare gli uomini alla volontà dell’Olimpo. Dove non è arrivato il vino, ci ha pensato la birra. La mitologia nordica ci ha tramandato offerte rituali di bevande a base di luppolo a Thor e Odino.
Dalla "propinatio" al nostro cin cin, che è cinese
Al tempo dei romani, la parola per indicare il brindisi era propinatio, letteralmente “bere prima”. Spettava al padrone di casa, infatti, il primo sorso, poi la coppa veniva passata (e donata) all’ospite. Di qui il verbo “propinare”, a cui sono attribuite oggi, chissà perché, solo accezioni negative. Altro termine utilizzato dai latini era prosit, letteralmente “sia utile”, “faccia bene”, “giovi”. La stessa espressione si ritrova nella liturgia cristiana, essendo l’augurio rivolto dai ministranti al celebrante al termine della messa. Il cristianesimo, com’è noto, non ha fatto altro che riprendere e rinnovare elementi già in uso, finché l’aspetto sacrale ha ceduto il passo a valenze sempre più terrene, ma mai terra terra. Il brindisi è rimasto una cosa seria, un segno con cui onorare i nemici sconfitti, oppure un modo per tutelarsi da essi: l’uso di far toccare i calici risale al tardo Medioevo, come stratagemma “di mutua fiducia” per far cadere gocce di vino da un bicchiere all’altro, scongiurando il rischio di avvelenamento. In un continuo travaso di vocaboli e significati, il nostro brindisi deriva dallo spagnolo brindis, mutuato dal tedesco bring dir’s, “lo porto a te”: era la forma di saluto dei temibili lanzichenecchi, passata in uso alle truppe spagnole. Cin cin, invece, ha origini cinesi, perché in questa geografia delle benedizioni non poteva mancare il favoloso Catai. Non sono stati i Polo, per una volta, a importarlo, bensì i marinai di Canton, che così si salutavano tra loro nei porti europei.
Dom Perignon e la rivoluzione del "botto"
La storia del brindisi cambia per sempre con l’avvento degli spumanti. Questa nuova tipologia, messa a punto nel XVII secolo – storia o leggenda che sia – dal monaco benedettino francese Pierre Pérignon, il “Dom” dello Champagne, sposta sorprendentemente l’attenzione dal contenuto della bottiglia al suo tappo. D’ora in avanti, il significato solenne, celebrativo o commemorativo del rito libatorio inizia nel momento stesso in cui la bottiglia viene stappata, generando il fatidico “botto”. La combinazione “botto + bollicina” diventa sinonimo di avvenimento, euforia, festa. È un big bang, che riscrive le regole dell’universo. Lo Champagne spopola in tutta Europa, simbolo di sfarzo ed eleganza. Un vino così, non si è mai assaggiato e non si è nemmeno mai visto. È proprio il suo colore, tendente al giallo e al dorato, a marcare la differenza rispetto ai vini bianchi fermi tradizionali. Il botto, l’aspetto cromatico, il filo di bollicine che salgono nel bicchiere, la spuma traboccante: è un rito che impegna tutti i sensi. Ne derivano auspici, superstizioni, mode. Essere colpiti dal tappo o raccoglierlo al volo diventa un gesto portafortuna, l’assicurazione su un buon matrimonio o sulla riuscita di un’impresa.
Moscato Champagne: la risposta italiana
Chi di tappi colti al volo se ne intende è l’imprenditore piemontese Carlo Gancia. Classe 1829, giovanissimo trascorre due anni nella Champagne, lavorando come operaio presso la cantina Piper-Heidsieck. Lì apprende i segreti della spumantizzazione, che, una volta tornato in Italia e aperta la propria ditta vinicola tra le colline astigiane, applica alle uve locali, moscato in testa. Nel 1865, nasce a Canelli lo Spumante Italiano. La paternità del vino, questa volta, è certa, qualche dubbio permane sull’origine del nome. Gancia lo chiama, senza troppi giri di parole, “Moscato Champagne”. Pare che sia stato D’Annunzio, niente meno, a proporre di sostituire il toponimo francese con l’italianissimo “spumante”, da lui sostantivato. Sulla scia di Gancia, sorge uno dei primi distretti enologici italiani. Con le sue grandi case vinicole, Canelli “spumantizza” il paese. E il fenomeno dilaga. Un’altra grande storia di successo è quella dei vini di Franciacorta, nel bresciano. Chardonnay e pinot nero sono le uve principali utilizzate, vinificate con il rigoroso Metodo Classico.
Franciacorta: come essere taglienti
Se gli spumanti di Canelli ottenuti da uve moscato, come il celebre “Asti”, sono dolci, quelli di Franciacorta sono secchi, acidi, taglienti. I primi vini a denominazione Franciacorta risalgono agli anni Sessanta, ma la viticoltura nella zona ha radici antiche. Già nel 1570, dunque ben prima di Dom Pérignon, il medico Girolamo Conforti pubblicò un Libellus de vino mordaci in cui descriveva, con dovizia di particolari, le caratteristiche dei vini frizzanti lì prodotti. E antichi sono i riferimenti a un altro vino oggi sulla bocca di tutti, il Prosecco. Chissà se Plinio, il primo a parlarne, avrebbe mai immaginato il successo travolgente che oggi accompagna questo formidabile “brand”. Per secoli, Prosecco non è stato altro che il nome di un’appartata frazione di Trieste, dove si produceva un vino bianco “tranquillo” destinato al consumo locale. Oggi, di tranquillità non c’è più traccia: il Prosecco, nella sua sola versione spumante, si produce in due regioni e nove province, macina numeri da centinaia di milioni di bottiglie l’anno e ha superato le vendite dello Champagne. Il vertice qualitativo è rappresentato dai suggestivi vigneti di Conegliano e Valdobbiadene, neopatrimonio dell’umanità Unesco.
L'eccellenza del Nord
Altri due comprensori ad alta vocazione spumantistica sono il Trentino, col suo affidabile marchio TrentoDoc, e l’Oltrepò Pavese, una Champagne in miniatura. L’Alta Langa si sta pian piano imponendo come terroir da bollicine, ma, se parliamo di altitudini, nulla può battere i freschi e minerali spumanti prodotti in Val d’Aosta, sul Monte Bianco, oltre il limite convenzionalmente accettato per la viticoltura. E sono sempre meno sporadiche le produzioni di eccellenza nel Centro-Sud Italia e nelle isole, complici le propizie condizioni pedoclimatiche.
È giunto ora il momento di brindare. In un calice innalzato, si riflettono tutti i mondi e le storie che ci legano e ci uniscono. Per la vita, il futuro, la ripresa: cin cin.
Ecco le mie bollicine del cuore, dal Nord al Sud Italia, che ho tenuto al fresco per voi
Valle d’Aosta Blanc de Morgex et de La Salle Glacier – Cave Mont Blanc
Siamo al cospetto della montagna più alta d’Europa, i vigneti di questa cantina cooperativa si inerpicano oltre quota 1.000 metri. E di granito e ghiaccio sa questa bollicina secca, minerale, dal finale ammandorlato. Metodo Classico Pas Dosé, 100% vitigno autoctono prié blanc.
Franciacorta Satèn 2016 – Ferghettina
Solo chardonnay, proveniente da 20 appezzamenti e 6 comuni, per questo perfetto esempio di eleganza e personalità franciacortina. Naso di crema pasticcera e fiori, bocca tesa, croccante ed equilibrata.
Metodo Classico Nature – Monsupello
Dal cuore dell’Oltrepò Pavese, una delle etichette più affidabili d’Italia, dal valido rapporto qualità-prezzo. Perlage finissimo, grande espressività olfattiva (piccola pasticceria, frutti bianchi), bocca ampia, succosa e lunga.
Trento Perlé Rosé Riserva – Ferrari
La storica griffe della famiglia Lunelli propone una gamma di bollicine di livello sbalorditivo. Questo rosé, da pinot nero e chardonnay, offre un perlage finissimo, un bouquet cremoso e un gusto armonico e persistente.
Brut Rosé – Murgo
Dalle pendici dell’Etna arriva questo nerello mascalese spumante dal colore rosa scarico, acidità prorompente e gusto intenso, molto versatile a tavola.
Tiziano Gaia è nato a Torino nel 1975. A lungo responsabile delle pubblicazioni enologiche del movimento Slow Food, è direttore del comitato scientifico del WiMu, il Museo del Vino a Barolo, e collabora con la rivista internazionale «Decanter». È autore e regista di documentari, tra cui «Barolo Boys. Storia di una rivoluzione», «Itaca nel Sole. Cercando Gian Piero Motti» e «Vite! Viaggio al centro di una terra». Il suo ultimo libro è «Stappato. Un astemio alla corte di Re Carlo» (2019, Baldini+Castoldi).