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E' come entrare nella biblioteca de "Il nome della Rosa": i segreti nell'incredibile collezione di etichette

Oltre 285 mila pezzi provenienti da 105 Paesi e risalenti ad epoche diverse. La donazione di Cesare Baroni Urbani ora è una mostra davvero unica

Tiziano Gaiadi Tiziano Gaia   
La raffinatezza calligrafica giapponese e un bizzarro omaggio a Marilyn, fra le etichette in mostra
La raffinatezza calligrafica giapponese e un bizzarro omaggio a Marilyn, fra le etichette in mostra

15x10 cm. Sono le misure standard di un’etichetta da vino moderna. Quanto basta per contenere le informazioni basilari sul contenuto della bottiglia. E anche molto, moltissimo altro. L’etichetta è un mondo, e il mondo può essere rappresentato, raccontato, interpretato in un’etichetta. Dev’essere stata più o meno questa la molla scattata al Prof. Cesare Baroni Urbani, quando ha deciso di iniziare a collezionare etichette da vino. Quante? Possibilmente tutte, o, quanto meno, il maggior numero possibile di quelle esistenti sul pianeta terra. Oggi, a distanza di quasi trent’anni dall’inizio dell’impresa, il Fondo Cesare e Maria Baroni Urbani costituisce una delle più ampie collezioni di etichette da vino d’uva al mondo. I suoi 285.000 pezzi (avete letto bene), singoli e autentici, datano dalla fine del Settecento ai giorni nostri e provengono da 105 Paesi.

Un balzo stranissimo: dallo studio degli insetti alle etichette

Facciamo un passo indietro. Il prof. Cesare Baroni Urbani è un entomologo di fama internazionale, già docente presso l’Università di Basilea, ora in pensione. Risiede nelle Marche, ma ha trascorso la vita a studiare gli insetti in giro per il mondo, in particolare le formiche. La loro struttura sociale rigida e organizzata, militaresca, per così dire, deve aver costituito una fonte di ispirazione non secondaria per affrontare quel particolare hobby, che è il collezionismo, con tanta meticolosità. Come le brave formichine mettono insieme il loro bel granaio di briciole, con altrettanta cura e pazienza il professore (con l’aiuto della moglie, Maria De Andrade), ha assemblato una collezione di etichette da vino di clamorosa varietà e completezza. Molti pezzi sono stati ottenuti direttamente dai produttori, la maggior parte dei quali gli ha inviato le etichette più recenti. Alcune prestigiose cantine, invece, si sono rifiutate categoricamente, costringendo Baroni ad acquistarne le bottiglie, per poi spogliarle del loro abito. Un esempio a caso? Romanée-Conti. Almeno ha bevuto bene, penserete. Forse… Circola voce che il professore sia astemio, ma ho preferito non indagare, per non togliermi il gusto di questa spiritosa leggenda. E comunque, ottenere la bottiglia, a volte, non è sufficiente. L’etichetta, unica garanzia del suo contenuto, quando riguarda vini pregiati e costosi, è protetta da potenti colle per impedirne la rimozione. La collezione, in passato, è stata implementata anche recuperando svariati esemplari tra i fondi di vecchie tipografie, un rubinetto oggigiorno chiuso, tramite scambi con altri collezionisti o con acquisizioni alle aste.

Le prime indicazioni: nelle anfore del Faraone

La più antica forma di etichetta, ovvero di informazioni relative al vino, risale agli antichi egizi. Nella tomba di Tutankhamon, Howard Carter rinvenne 36 anfore da vino. Su 33 di esse è indicato il nome del capo cantiniere, due recano la dicitura “vino molto buono”, alcune portano il sigillo delle tenute del faraone. I dati impressi nell’argilla di altre anfore riguardano l’anno di produzione del vino contenuto, il vigneto di provenienza, il nome del proprietario e del capo cantiniere. I greci, veri iniziatori della civiltà della vite e del vino, ci hanno lasciato preziose testimonianze sulle anfore dei vini di Chios: una sfinge e un grappolo d’uva sono il primo contrassegno giunto fino a noi. I romani introducono novità di rilievo. Sulle anfore di epoca repubblicana, “l’annata” è sostituita dal nome del console in carica in quel determinato periodo, ma, soprattutto, compare il nome del vino che contengono, quasi sempre associato al territorio di provenienza, in pratica una Doc ante litteram. Nel Medioevo, il vino è servito travasato in caraffe di terracotta o ceramica, ed è del tutto anonimo per l’avventore. La bottiglia in vetro soffiato, fragile e costosa, diventa uno status symbol nel Cinquecento dell’età moderna, ma la maggior parte di esse è ancora in peltro, ceramica vetrificata, persino legno. L’invenzione della bottiglia di vetro, all’incirca come la conosciamo oggi, si deve all’inglese sir Kenelm Digby, che, nella prima metà del Seicento, sfrutta al massimo le nuove possibilità offerte dai forni a carbone, per dare vita a contenitori dalla forma a bolla e dal collo allungato, finalmente stabili e di colore verde o bruno. Nel Settecento, la bottiglia si snellisce e il tappo in sughero diventa la norma. E intorno al 1730, compaiono i bottle tickets, placche in metallo o pergamena recanti il nome del vino, la data di imbottigliamento e la provenienza: per la prima volta, l’informazione sul vino approda in tavola.

Champagne e Porto: la svolta

L’etichetta su carta soppianta i tickets per la sua semplicità ed economicità. Sono i produttori di Champagne, nell’Ottocento, i primi a sentirne l’esigenza, seguiti dai colleghi di Porto. Bottiglia ed etichetta, a livello concettuale, si separano per sempre: d’ora in avanti, le singole aziende realizzeranno specifiche etichette da applicare sulle bottiglie. Nasce la personalizzazione dell’informazione enologica. Il metodo tipografico è quello della litografia, inventata alla fine del Settecento. In principio si utilizzano modelli ingentiliti da decori generici, con un pre-stampato “18_ _” da completare a mano, con il nome del produttore. La stampa policroma e, dal 1837, la cromolitografia assecondano la crescente creatività delle aziende. In Italia, i primi modelli sono molto semplici, con fregi lineari e piccole dimensioni, adatte a bottiglie non prive di irregolarità. Nel corso del secolo, le cose cambiano: sull’esempio di Bordeaux e della Borgogna, si affermano i motivi dorati e il medagliere, per segnalare le onorificenze e i premi ricevuti in occasione di concorsi ed esposizioni internazionali. E se esiste un cliente di prestigio, di solito un sovrano, non si esita a indicarlo a chiare lettere. L’abuso, e in certi casi l’uso scorretto, di tali segnalazioni porteranno al loro successivo divieto. Ma ormai la fantasia ha preso il sopravvento, e l’etichetta diventa a tutti gli effetti la seconda pelle del vino, o una sorta di lavagnetta, su cui esprimere opinioni, idee, punti di vista, sul vino e non solo.

I "segreti" dentro le etichette

Le etichette presentano un importante valore documentario. Offrono informazioni di grande interesse storico o geografico su molti vini di cui, a volte, non restano più tracce. Molto raccontano sui caratteri del luogo, del tempo e del contesto culturale in cui sono state realizzate. Le dimensioni, la carta di cui sono composte, il tipo di stampa, gli elementi decorativi e gli stili che ne definiscono l’estetica riverberano – prima e indipendentemente dal vino che promuovono – le condizioni economiche, tecnologiche, sociali del mondo in cui quel vino è stato prodotto. Lo spirito della Storia soffia forte. Nella collezione di Baroni Urbani, la guerra fa capolino più volte, come, ad esempio, sulle etichette di Champagne recanti le sovrastampe delle acquisizioni effettuate dalla Wehrmacht o dagli Alleati, oppure sulle etichette inglesi che inneggiano alla vittoria nelle Falklands. In alcuni casi, non solo non esiste più il vino, ma nemmeno lo Stato: le etichette del KwaNdebele testimoniano il breve periodo della sua semi-indipendenza dal Sud Africa. Gli esemplari provenienti dall’Iran sono tutti, per forza di cose, ante 1979, non essendo più possibile produrre vino, nella patria dello Shiraz, dall’anno della rivoluzione islamica. Anche l’unica etichetta siriana della collezione assume oggi un significato simbolico particolare, vista la situazione del martoriato paese. Mentre la dicitura “Gerusalemme – Palestina” può essere letta come auspicio per una serena convivenza tra i rispettivi popoli, e, in ogni caso, salta all’occhio. Potremmo poi passare agli esempi di viticoltura remota o estrema, ben rappresentata nel Fondo Baroni Urbani: è in questo modo che ho scoperto la capillare diffusione del vino in Africa (Kenya, Tanzania, Burkina Faso, Madagascar…), in Asia centrale e orientale (Turkmenistan, Tagikistan, Birmania, Malesia…), nel Pacifico (Nuova Caledonia e Tahiti). E se qualcuno pensa che, con questi chiari di sole, presto o tardi berremo il vino norvegese, stia tranquillo, perché il vino norvegese esiste già, con la sua emblematica etichetta ispirata all’Urlo di Munch. Del resto, come non rimanere a bocca aperta dinanzi a tanti e tali prodigi vitivinicoli.

Ma anche le formiche più tenaci si stancano. E così, un giorno, il professore ha pensato che fosse giunto il momento di passare il testimone. Gira anche una voce più prosaica, che non sapesse più dove sistemare l’enorme mole di etichette accumulata. Nell’ottobre 2012, la collezione viene donata al Comune di Barolo ed entra a far parte del patrimonio del WiMu-Wine Museum Castello di Barolo, che da quasi dieci anni continua ad accrescerla e a valorizzarla, consentendone la fruizione da parte del pubblico. Mettere piede nelle stanze in cui è conservata la collezione, è come entrare nella biblioteca del Nome della Rosa. Migliaia di raccoglitori, sistemati in solenni armadi, suddivisi, dal suo creatore, per paese, regione, Doc, comune, cantina. Un lavoro incredibile.

Dove vedere la collezione 

In occasione del riconoscimento di Città Italiana del Vino 2021 assegnato al Comune di Barolo dall’Associazione Nazionale Città del Vino, la Barolo & Castles Foundation e il WiMu propongono un affascinante viaggio alla scoperta del Fondo Cesare e Maria Baroni Urbani, promuovendo un’articolata esposizione itinerante di etichette storiche, suddivise per temi e fruibili nei castelli di Langhe e Roero, sintesi di cultura, architettura e paesaggio. Una delle iniziative più attese dell’anno, che ha coinvolto il comitato tecnico di Barolo2021, il Comitato scientifico del WiMu ed è stata possibile grazie all’appoggio istituzionale dei Comuni interessati. Come si può immaginare, sarà esposta una porzione infinitesimale della collezione. Ma è un inizio. Da formichine operose, si cercherà di renderla visibile, mostra dopo mostra, castello dopo castello.

Di seguito alcune indicazioni sulle esposizioni, aperte dal 10 luglio al 30 settembre. Tutte le info disponibili qui.  

Terroir magici

Castello di Barolo: Il grande viaggio della vite. Dalla culla ai confini del mondo.
Etichette da Georgia, Armenia, Iran, Siria, Libano, Grecia, Cipro, Egitto, Tunisia, Spagna, Nuovo e Nuovissimo Mondo.

Castello di Magliano Alfieri: Vini di sabbia, di rocche e di antichi mari.
Etichette da Roero, Bosco Eliceo, Sulcis, Camargue, Pantelleria, Madeira, Algeria, Colorado, Cuba, Filippine, Nuova Caledonia, Tahiti.

Castello di Serralunga d’Alba: Vini che sfidano le vette.
Etichette da Valle d’Aosta, Vesuvio, Etna, Vallese, Peloponneso, Perù, Bolivia, Cile, Argentina.

Il castello di Serralunga ospiterà anche la mostra Il Barolo e le Città del Vino, omaggio all’Associazione Nazionale ideatrice del riconoscimento “Città Italiana del Vino”. Il percorso narra le origini del Barolo e dei suoi cru, con particolare riferimento a quelli dell’ospitante Comune di Serralunga, per approdare alle etichette storiche dei 39 Comuni fondatori dell’associazione, che Barolo quest’anno idealmente rappresenta.

Tiziano Gaiadi Tiziano Gaia   
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